Le storie bisogna saperle raccontare. Che siano vere, false, vere a metà, bisogna saperle raccontare. A uno che sa raccontare le storie si perdona tutto. Raccontami di quella volta che hai vinto una guerra da solo e hai dato uno schiaffo a Mussolini nella piazza affollata di Bagnacavallo e ti ascolterò rapito e affascinato, pur non credendo a una sola parola di quello che dici.
C’è questa storiella di repertorio che uso spesso e piace sempre. Perché ho dovuto metterlo su, in tutti questi anni, un repertorio. Sono nove anni che io, tre-quattro volte alla settimana, faccio questa bizzarra cosa: prendo un treno, un aereo, la mia macchina, arrivo in una città lontana, raggiungo una libreria, una biblioteca, una festa della birra, un enorme prato, una cantina, una chiesa sconsacrata, un ristorante con pretese culturali, mi siedo davanti a un microfono, quando c’è, e sorrido ad un gruppo di sconosciuti noti come: Il Pubblico, di numero variabile dalle quattro alle cento persone, ed inizio a parlare dei miei libri. Non tutte le serate sono uguali. Bisogna imparare a guardare il pubblico. E a modificare un po’ il repertorio in base a chi si ha davanti.
Davanti a un gruppo di aspiranti scrittori fa sempre colpo la storiella di repertorio n. 25, il racconto di quando ho infilato il mio primo romanzo in una busta imbottita formato A4 e l’ho spedito all’indirizzo di un editore, e di quando un mese dopo l’editore mi ha telefonato al numero di casa, e del primo incontro con l’editore, con tanto di gag, battute ormai rodate ed infiorettamenti vari. Davanti a platee generiche e un po’ teledipendenti funziona sempre la storiella di repertorio n. 39, di quando Maria de Filippi ad Amici –bisogna un po’ calcare i toni sui nomi conosciuti- ha ospitato Aldo Busi in una sua rubrica e Aldo Busi ha parlato per tre puntate del mio quinto romanzo e quel quinto romanzo è anche diventato un film uscito al cinema negli Stati Uniti. Davanti alle platee un po’ nazionalpopolari va sempre alla grande, la storiella di repertorio n. 39.
La storiella di repertorio n. 77 è nata un giorno ad Avezzano, in Abruzzo, e da allora l’ho usata nelle circostanze più disparate.
Ad Avezzano in Abruzzo ero nel cortile di una scuola, avevo davanti più o meno cento persone, e di quelle cento persone, diciamo, il più giovane aveva sessantacinque anni. Non mi sembrava la tipica platea a cui posso raccontare le mie storielline sui gruppi rock e i fumetti di supereroi.
Potevo sfoderare la storiella di repertorio n. 39. Invece ho improvvisato. Ed ho parlato di mio nonno. La storiella di repertorio n. 77, riassumendola molto, fa così. Se ho imparato a scrivere e a raccontare storie, forse gran parte del merito è del nonno Gino. Il nonno Gino piombava in casa mia a orari abbastanza fissi e prevedibili, ed annunciava alle donne presenti che io, nipote in età scolare, andavo a fare una passeggiata con lui. E io piantavo lì quel che stavo facendo, chiaramente, ed andavo a fare una passeggiata con lui.
Le passeggiate con mio nonno, ad avere in mano una stele, si sarebbero potute chiamare tranquillamente maratone per durata e chilometraggio.
Durante queste interminabili passeggiate, io tacevo ed ascoltavo, ed il nonno Gino parlava. Parlava di calcio e di ciclismo, un po’, ma soprattutto raccontava aneddoti della sua vita.
Mio nonno ha avuto quattro vite, mettiamola così.
-Apprendista meccanico.
-Partigiano.
-Poliziotto.
-Assicuratore.
Bene: è facile affascinare un bambino con storie di meccanica, di guerra e polizia. Già meno facile farsi ascoltare raccontando per la settantacinquesima volta lo stesso, identico aneddoto sulla cagnolina Cina.
Ma tenere un bambino col fiato sospeso raccontando le mirabolanti imprese del cavalier Zuppiroli e della sua polizza incendio-furto (La stipulerà? Non la stipulerà? ), ecco, questo vuol dire avere un autentico talento per la narrazione.
Capite adesso da chi ho imparato a raccontare storie?